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Anziana uccisa in casa: soluzione alle porte dopo 20 anni

Emilio Burrasca è accusato da due pentiti di mafia, Angelo e Giancarlo Di Dio

ENNA. Finalmente testimonianze e approfondimenti sono chiusi. Ora la parola passa all’accusa e così, fra nove giorni esatti, potrebbe arrivare la sentenza di primo grado a carico del giovane Emilio Burrasca, imputato per l’omicidio di Rosa La Paglia, l’anziana che fu strangolata l’1 marzo 1994 a casa sua, in una traversa di via Roma, da due uomini, che erano andati a rubare e l’avrebbero uccisa perché sorpresi dal suo improvviso rientro a casa.

Il tribunale per i minori di Caltanissetta ha fissato la data delle conclusioni del processo a Burrasca. Dopo quasi vent’anni potrebbe scriversi l’11 aprile una nuova pagina di verità sull’omicidio, per cui sta già scontando 22 anni uno degli assassini, l’ennese Massimo Calzetta, ma non è mai stato individuato prima d’ora il suo complice.

Così solo dal 19 giugno 2008, su indicazione di due pentiti, il Tribunale per i minori di Caltanissetta ha messo sotto processo il giovane Burrasca, all’epoca sedicenne, difeso dall’avvocato Gabriele Cantaro. Il mese scorso il tribunale ha dichiarato finalmente chiusa l’istruttoria dibattimentale. E l’11 aprile sono in programma la requisitoria del pm, l’arringa del difensore e la sentenza. Burrasca è accusato da due pentiti di mafia, Angelo e Giancarlo Di Dio, di aver commesso il delitto assieme a Calzetta. È stato, però, un dibattimento decisamente complesso, passato anche da vari cambi di giudici. Solo negli ultimi mesi si è impressa un’accelerazione, tanto che sono stati interrogati tutti i testi.

L’avvocato Cantaro ha ottenuto l’audizione di numerosi testimoni «di riferimento», per smentire le tesi dell’accusa. In particolare Michelangelo Burrasca, fratello di Emilio, ha detto di non aver mai raccontato nulla ai pentiti, che sostengono di aver appreso ciò che Emilio aveva fatto da lui; e accusa a sua volta i pentiti di parlare perché spinti da odio nei suoi confronti. Altri ancora hanno smentito specifiche circostanze, come quella macabra di un presunto «brindisi all’omicidio», spiegando che in realtà quel brindisi, che ci fu davvero, non ebbe nulla a che vedere con la rapina e l’omicidio. L’imputato si è sempre professato innocente. Il nodo da sciogliere, in sostanza, è tutto legato alla credibilità e alla valenza delle dichiarazioni accusatorie dei collaboratori di giustizia.

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