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Il capitano Paolo Vigneri di Calascibetta, il siciliano che arrestò Mussolini

I momenti di uno degli episodi più importanti della storia d'Italia nel racconto tratto dalla relazione del carabiniere che ne fu protagonista. Finita la guerra, divenne notaio ed esercitò la professione a Catania fino alla morte, che arrivò nel 1988

La storia italiana è costellata di esemplari azioni compiute da eroi silenziosi, che non sempre hanno ricevuto la giusta attenzione. Uomini e donne, spesso poco noti, che hanno fatto coraggiosamente il loro dovere. Da eroe silenzioso si comportò, senza dubbio, a Roma, nel turbolento 25 luglio 1943, il giovane capitano dei Carabinieri Paolo Vigneri, nato a Calascibetta (En) il 13 marzo 1907 e, dopo la parentesi militare, trasferitosi a Catania per esercitarvi, con un certo successo, la professione di notaio. Si spense nel capoluogo etneo il 24 ottobre 1988. Racconteremo le sue mai vantate gesta più avanti, non prima, però, del necessario accenno al contesto storico d’allora.

Il Re e lo sbarco

È noto che re Vittorio Emanuele III da tempo meditasse, dopo vent’anni di connivente diarchia, come e quando far «uscire di scena» Benito Mussolini per sostituirlo con una personalità gradita alla Corona. Il re e le autorità militari del regime a lui vicine avvertivano, rispetto ai rassicuranti dispacci del duce, che la disfatta era alle porte e che il Paese in guerra non poteva reggere l’urto dell’offensiva delle forze nemiche. L’isola di Pantelleria, considerata da Mussolini un baluardo difensivo «imprendibile», cedette ai massicci bombardamenti e venne conquistata l’11 giugno 1943 dagli alleati angloamericani. Il 10 luglio successivo ebbe inizio, nella parte meridionale della Sicilia, quella che il primo ministro inglese Winston Churchill definirà «la più grande operazione anfibia che mai fosse stata tentata nella storia».

Le armate inglesi e Usa sbarcarono in massa nelle nostre coste per occupare l’Isola. Nove giorni dopo (19 luglio) fu Roma ad essere pesantemente bombardata. Nel quartiere San Lorenzo, devastato, i morti furono tantissimi, fra i quali il comandante generale dei Carabinieri Azolino Hazon, prontamente rimpiazzato con il generale Angelo Cerica, vicinissimo al re. Il 22 luglio la VII armata Usa, comandata dal generale George Patton, prese Palermo. Per il sovrano, assai preoccupato dalle drammatiche notizie che si susseguivano, la misura era davvero colma.

La congiura

Intanto, fra gli esponenti più importanti del fascismo, alcuni molto vicini alla monarchia, cominciarono ad affiorare dubbi e critiche nei confronti del capo del Governo e, più esplicite, verso le forze armate e gli ufficiali più in vista. Ottennero la convocazione del Gran consiglio del fascismo per discutere un ordine del giorno che, nella sostanza, era un atto di sfiducia nei confronti di Mussolini e del suo operato. Il 25 luglio ’43, intorno alle ore 2,30, il massimo organo del regime con un consenso ampio (19 sì, 8 no e 1 astenuto) approvò quel documento che a giudizio di un rassegnato duce «apriva la crisi del regime fascista».

Per Vittorio Emanuele fu senz’altro una bella notizia, forse non del tutto inaspettata. Poche ore dopo l’ansioso monarca comprese che era arrivato il momento di agire e con una mossa, rapida e decisa, rimosse Mussolini, scegliendo come nuovo capo del Governo il generale Pietro Badoglio. In gran segreto firmò il relativo decreto di nomina. L’ignaro Benito Mussolini, all’incirca dopo le 10, si premurò di chiedere udienza al re per le ore 17. Udienza prontamente accordata con la raccomandazione di presentarsi al cospetto del sovrano in abiti borghesi e non al Quirinale ma a Villa Savoia, residenza privata del re.

La decisione, ancora non resa pubblica, di sostituire Mussolini con Badoglio, non placò del tutto il «furore» degli alti gradi militari, che ritenevano la sostituzione un provvedimento insufficiente. Alcuni di loro brigavano già da tempo per fare arrestare il duce (c’era pronto, a detta di molti, un minuzioso piano, concordato con alti dignitari del Quirinale). Fecero, pertanto, pressioni sul re perché ne autorizzasse, dopo l’udienza, l’arresto immediato dentro il perimetro della villa reale. All’inizio il sovrano nicchiò, anche se la proposta non gli dispiaceva molto. Poi acconsentì, dopo un estenuante tira e molla tra il generale Vittorio Ambrosio, capo di stato maggiore della Difesa, e il comandante dei Carabinieri generale Cerica, e finalmente vennero dati tutti gli ordini necessari. Il comandante Cerica, come primo atto, dispose con un pretesto di annullare la libera uscita dei carabinieri e d’individuare 50 uomini, militi e sottufficiali, più alcuni ufficiali di indiscusse capacità e lealtà, per compiere l’azione più delicata e non scevra di pericoli: l’arresto. La scelta cadde sul tenente colonnello Giovanni Frignani e sui capitani Raffaele Aversa e Paolo Vigneri. Quest’ultimo fu esplicitamente incaricato di procedere materialmente alla cattura di Mussolini.

L’arresto

Siamo in grado, ad ottant’anni di distanza dai fatti e per una loro migliore comprensione, di portare a conoscenza dei lettori di questo giornale i contenuti della «Relazione redatta dal capitano dei CC.RR. Vigneri Paolo sull’arresto di Mussolini operato il 25 luglio 1943 a Villa Savoia». La relazione, una originalissima testimonianza su un episodio storico eclatante, è stata scritta a Roma il 3 giugno 1945 e, molto probabilmente, non è mai stata pubblicata integralmente da nessun quotidiano o testo di storia. Vigneri esordisce descrivendo l’atmosfera, non proprio serena, che si respira nella sede del Gruppo Carabinieri di viale Liegi, quando, insieme al collega Aversa, si presenta, per ricevere ordini, al cospetto del nervosissimo comandante Cerica. Nel trasmettere l’ordine di arrestare Mussolini, aggiunge: «Vi affido un compito per cui faccio appello al giuramento di fedeltà al Re da voi solennemente prestato all’atto della nomina ad ufficiali…». I due capitani rispondono quasi ad una voce: «Va bene». Subito dopo il tenente colonnello Frignani avrebbe dato le istruzioni di dettaglio sulle operazioni da compiere, aggiungendo che l’arresto del duce avrebbe dovuto eseguirsi a qualunque costo e, per evitare fraintendimenti, chiosa che bisogna «catturarlo vivo o morto». Frattanto giunge nella villa reale un’autoambulanza condotta da un poliziotto con tre agenti di pubblica sicurezza, in abiti civili, armati di mitra. Per non dare troppo nell’occhio, l’ambulanza viene individuata come mezzo di trasporto idoneo per condurre, dopo l’arresto e in gran segreto, il duce dal sito reale alla caserma dei Carabinieri «Podgora».

Vigneri rivela un particolare. Frignani ha «fatto presente che assieme a Mussolini ci sarebbe stato il suo segretario particolare, De Cesare, e l’autista…» e, dunque, bisogna mettere nel conto una improvvisa reazione anche violenta. Per prevenire tali atti, prudentemente, il capitano Vigneri «scelse personalmente tre sottufficiali di particolare prestanza fisica… per avere manforte in caso di resistenza, prima di ricorrere all’uso delle armi». Carabinieri e poliziotti, con autocarro, auto di servizio e ambulanza, con molta discrezione, si spostano a villa Savoia e, secondo i piani, si predispongono fra i viali del parco pronti a portare a conclusione l’operazione. Mussolini arriva poco dopo con l’auto di servizio, il suo segretario e l’autista. La scorta rimane fuori dal recinto. Il re riceve il duce e rimangono a colloquio non più di venti minuti. L’autista, con una scusa, viene introdotto in un locale di servizio e chiuso a doppia mandata. Il segretario De Cesare è con un funzionario in una stanza vicina a quella del re. Frignani è a conoscenza delle «riserve» del re sulle modalità dell’arresto e ne trae il convincimento che la misura restrittiva non sarebbe stata autorizzata. Lo comunica ai due capitani e aggiunge: «Noi in ogni caso lo arresteremo lo stesso». Aversa e Vigneri, ufficiali dal tenace concetto, non sono dello stesso avviso. Vigneri, come riportato nella sua relazione, calmo ma deciso, dice subito che «senza l’ordine del Re l’arresto non si farà» e rappresenta «le conseguenze di un’azione intempestiva e non legittimata dall’ordine reale». Su Frignani scriverà: «È romagnolo, sente la passione dell’ora e valuta la necessità di non dar tempo al capo del governo spodestato di riaversi dal colpo e tentare una qualunque azione di rivalsa». Per fortuna, come già ricordato, il re si ammorbidisce e, poco prima del colloquio con Mussolini, decide di dare il via all’operazione.

Minuti convulsi

I due capitani, tre vicebrigadieri e tre agenti armati di mitra si portano sul lato orientale della palazzina, viene posizionata l’ambulanza, mentre i 50 carabinieri, pronti alla bisogna, sono acquartierati sul lato settentrionale della villa. Poco più distanti di loro ci sono un questore e un commissario di pubblica sicurezza. Ad un domestico della casa reale viene affidato il compito di segnalare che Mussolini sta per uscire. Tutto è pronto. Il domestico si allontana, è il segnale. I due ufficiali con il seguito si avvicinano e notano che il dimesso duce sta scendendo, insieme a De Cesare, gli ultimi gradini della scalinata. Sono entrambi vestiti in abiti civili, Mussolini con un vestito bleu e un cappello floscio deformato. Il capitano Vigneri va loro incontro, saluta militarmente e, sull’attenti, dice: «Duce, in nome di S.M. il Re vi preghiamo di seguirci per sottrarvi ad eventuali violenze della folla». Poi il racconto di Vigneri così continua: «Mussolini allarga le mani, serrate su una piccola agenda e risponde con un tono stanco e quasi implorante: ma non ce n’è bisogno!». L’aspetto di colui che ha tenuto in pugno l’Italia per un ventennio è quello «di un uomo moralmente sfinito, ha un colorito malato, sembra anche più piccolo di statura». Vigneri non deflette e dice: «Duce, io ho un ordine da eseguire». «Allora, seguitemi», risponde Mussolini, e fa un passo verso la sua auto.

L'arrivo in caserma

Rapidamente il capitano gli si para davanti e con tono deciso ingiunge: «No, Duce, bisogna venire con la mia macchina». Allora questi non dice altro e si avvia verso l’ambulanza, davanti alla quale ha un attimo di esitazione. Vigneri lo prende per il gomito sinistro e lo aiuta a salire facendolo sedere sulla panca destra, mentre di fronte verrà sistemato De Cesare. Poi il duce ha un momento di stizza quando vede salire a bordo sottufficiali e agenti. Protesta: «Anche gli agenti? No!». Vigneri allarga le braccia e sale, insieme ad Aversa, nell’abitacolo della vettura. C’è caldo soffocante, all’interno si contano dieci persone «e si sta stretti». L’ambulanza si muove per dirigersi verso la caserma Podgora. Mussolini «tace. Ogni tanto si porta l’indice alla narice del naso. Tiene gli occhi bassi, non guarda nessuno, ha l’aspetto abbattuto». Tutti i compagni di viaggio sono «impacciati». Durante il trasporto, non succede nulla. L’ambulanza arriva a destinazione e si ferma nel cortile della caserma. Mussolini si rivolge a Vigneri e domanda: «È una caserma dei carabinieri questa?» L’ufficiale gli risponde affermativamente e accompagna l’ormai «prigioniero» verso l’ingresso del circolo ufficiali e invita il comandante del sito (all’oscuro di tutto) a fare aprire la porta perché «il Duce è nostro ospite» e bisogna farlo accomodare. Poi in disparte rivelerà ai suoi colleghi della Podgora il motivo dell’inaspettata «visita». Vigneri non perderà mai di vista Mussolini ed è per questo che lo scorgerà «mentre si abbassava la cinghia di cuoio con cui aveva assicurato i pantaloni, perché stava rimettendosi a posto la camicia con gesto plateale».

«Lei è in arresto»

Naturalmente Mussolini e De Cesare hanno già compreso tutto e si scambiano poche parole sottovoce. Ad un tratto De Cesare rivolto a Vigneri gli pone alcune domande, le cui risposte sono nette e perentorie e non ammettono replica. «E se il Duce volesse andar via?» Risposta: «Non può andar via». «E se volesse telefonare?» Risposta: «Non può telefonare». De Cesare assume allora un tono risentito ed esclama: «Lei come definisce ciò?». Vigneri per nulla intimorito, risponde: «Eccellenza, io eseguo gli ordini ricevuti e non sta a me dar definizioni». Immediatamente si dispone di tagliare i fili del telefono che si trova sul tavolo della sala dove stazionano Mussolini e il suo segretario. Poi i militari convengono, per ragioni di sicurezza, che è meglio trasferire i due presso la legione allievi in via Legnano. Sarà il tenente colonnello Frignani a coordinare il tutto e in breve tempo l’autoambulanza è pronta a ripartire con gli stessi uomini. Il capitano Vigneri «chiede a Mussolini di seguirlo e questi aderisce all’invito senza dir parola».

Si parte a tutta velocità. Mussolini si lamenterà della velocità della macchina e verrà ordinato all’autista di rallentare. Nell’arco di pochi minuti l’automezzo giunge nel cortile del sito individuato. Al primo piano è già pronto l’alloggio che lo «ospiterà». Vi rimarrà il tempo necessario per essere trasferito nell’isola di Ponza, prima tappa della sua non lunga detenzione, e non dimenticherà i nomi e i volti dei tre ufficiali dei carabinieri che hanno eseguito con rigore gli ordini ricevuti.

Dopo l'armistizio

Intanto, la guerra evolve, l’8 settembre sarà proclamato l’armistizio, l’Italia è allo sbando. Il 10 settembre ’43 i tedeschi, inferociti per il «tradimento» del governo italiano, occupano Roma. È l’inizio della vendetta. Il 12 settembre Mussolini viene liberato da avieri nazisti. Il giorno dopo avrebbe fatto sapere di volere personalmente la testa del tenente colonnello Frignani. Questi è costretto a entrare in clandestinità. Le SS compiono numerosissimi arresti fra i carabinieri allo sbando. In quei giorni il capitano Aversa sfugge a una tentata cattura e organizza il Fondo clandestini di Resistenza. Il 23 gennaio ’44, assieme a Frignani, verranno fatti prigionieri dalle SS. Dopo due mesi di sevizie e dopo la nota strage di via Rasella, il 23 marzo verranno uccisi alle Fosse Ardeatine. Il presidente della Repubblica ha concesso loro la medaglia d’oro al valor civile.

E il capitano Vigneri che fine ha fatto? Ha lasciato in tempo la capitale assediata, unendosi ai primi partigiani subito dopo l’8 settembre. Il professore Riccardo Vigneri, figlio del capitano Paolo e professore di Endocrinologia a Catania, afferma che il padre «nell’obbedire agli ordini, ha compiuto un atto di coraggio. Va ricordato che gli altri due ufficiali, coinvolti nell’arresto di Mussolini, finirono alle Fosse Ardeatine. Mio padre per oltre un anno, vivendo sotto falsa identità, si nascose a Roma perché ricercato dalla Gestapo. Tutto cambiò nel ’45 con l’arrivo degli angloamericani».

Infatti, a conclusione della guerra, dimessosi dall’Arma e conseguita l’abilitazione divenne apprezzato notaio a Catania fino alla morte. Non parlava facilmente dei fatti vissuti in prima persona, sia perché preferiva ai clamori la riservatezza, ma anche perché convinto di avere solo servito il suo Paese che si avviava a conquistare libertà e democrazia.

Un sentito ringraziamento al professore Riccardo Vigneri per la disponibilità e al generale di Corpo d’armata Giuseppe Governale, comandante delle Scuole dei Carabinieri, per i preziosi consigli e per le notizie gentilmente fornite su uno dei più tragici episodi della nostra storia contemporanea.

In alto Paolo Vigneri: a sinistra una rara foto del capitano ai tempi dell’arresto di Mussolini, a destra un’immagine più recente, scattata quando esercitava la professione di notaio a Catania

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